Non è estranea alle recenti cronache la notizia che determinati individui, risultati positivi al tampone per l’accertamento del Covid-19 e, per questo, sottoposti a misure di isolamento domiciliare abbiano violato tale provvedimento e si siano recati i luoghi aperti al pubblico con conseguente pericolo di contagio di altre persone sane.
Al di là dell’assenza di buon senso che tali comportamenti denotano, si è innestato un dibattito in ordine alla possibilità di ricollegare delle conseguenze penali a tali condotte.
In primo luogo, all’interno dell’autocertificazione, che dovrebbe accompagnare ciascuno negli spostamenti dettati da motivi di necessità, deve essere dichiarato di non essere sottoposto alla misura della quarantena domiciliare o di non essere risultato positivo al tampone.
E’ stata posta in dubbio, tuttavia, l’effettiva possibilità di ricollegare a quelle dichiarazioni delle conseguenze in materia penale. In particolare, è stato sottolineato come a tale fattispecie non appaia applicabile l’art. 495 cp., pure richiamato all’interno dei modelli di autocertificazione reperibili, in quanto la norma sarebbe applicabile solo nei casi in cui le false attestazioni concernano l’identità, lo stato o altre qualità della persona, e, quindi, non in questo caso. Né tanto meno risulta applicabile l’art. 483 cp. atteso che la dichiarazione non risulta qualificabile come “attestazione” al pubblico ufficiale. La citata disposizione punisce, infatti, chi attesta falsamente al pubblico ufficiale fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità. E’ stato chiarito costantemente dalla giurisprudenza che la fattispecie è applicabile solo se una specifica norma attribuisca all’attestazione la funzione di provare determinati fatti, collegando così l’efficacia probatoria da ricollegare all’atto al dovere del dichiarante di affermare la verità (da ultima Cass. sez. V n.25927/2017).
Prescindendo dalle conseguenze ricollegabili all’autocertificazione richiesta per gli spostamenti, il vero problema risiede nella risposta penale al comportamento di chi, pur essendo a conoscenza del proprio stato di salute, viola le prescrizioni che gli impongono l’autoisolamento, accedendo a luoghi pubblici o aperti al pubblico e determinando l’insorgere del rischio di un contagio.
La condotta è stata presa in considerazione dalla nuova fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 2 co.1 lett e del d.l. 19/2020 che sanziona il solo fatto di violare l’isolamento domiciliare, indipendentemente dall’effettivo contagio di altri individui.
La norma, tuttavia, si apre con una clausola di sussidiarietà espressa, con cui si intende assicurare comunque l’operatività di altre fattispecie di reato che vengano comunque realizzate mediante la violazione della quarantena. Sotto tale profilo, viene, dunque, immediatamente in rilievo la fattispecie di epidemia colposa, punita dall’art. 438 cp. in combinato disposto con l’art.452 cp. con una pena ben più severa (reclusione da 1 a 5 anni, o da 3 a 12 anni nel caso in cui dal fatto derivi la morte di una o più persone).
Stando all’interpretazione della norma che ne è sempre stata data da parte della giurisprudenza, essa deve ritenersi, tuttavia, non applicabile alla condotta materiale innanzi descritta.
In primo luogo, occorre osservare che la norma incriminatrice è posta a tutela di un bene giuridico superindividuale, quale l’incolumità pubblica, un interesse di carattere generale, che trascende la salute del singolo, esposto al pericolo di un contagio per l’effetto dell’altrui gesto irresponsabile.
In secondo luogo, deve rilevarsi che l’epidemia richiede nella sua materialità la diffusione o la diffusibilità, l’incontrollabilità del diffondersi del male ad un numero indeterminato o indeterminabile di persone. In buona sostanza, si richiede per la configurabilità del reato in parola la diffusione di germi patogeni che cagionino un evento di danno per un certo numero di persone, in un certo territorio ed in uno stesso contesto di tempo.
Anche sotto questo profilo, appare difficile ammettere la sussistenza del reato di epidemia colposa, atteso che la violazione delle prescrizioni da parte di chi sia risultato positivo al virus difficilmente assumerà questa portata così ampia, almeno in un momento come questo in cui le restrizioni alla libertà di circolazione tendono ad evitare il più possibile la diffusione di nuovi contagi, che costituiscono proprio l’evento richiesto dalla norma incriminatrice.
In ogni caso, deve sottolinearsi che, pur prescindendo dalla concreta applicabilità di questa fattispecie, pur considerata l’elevata contagiosità del virus, sarebbe pressochè impossibile nel corso di un’istruttoria dibattimentale provare che la condotta dell’individuo già contagiato sia stata la causa determinante dell’insorgere della malattia in altri soggetti specificamente individuati.
Presumibilmente, allora, la corretta risposta sanzionatoria a tali, pur gravi, comportamenti è rappresentata dalla fattispecie contravvenzionale da ultimo introdotta, essendo obiettivamente difficile sostenere la configurabilità del più grave reato di epidemia colposa.