Con sentenza n. 11626 del 4 aprile 2020 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in un caso concernente la responsabilità amministrativa degli enti di cui al decreto legislativo n. 231/2001 smentendo le censure mosse dai ricorrenti con riferimento alla giurisdizione del giudice italiano.
La Sesta sezione ha affermato che la persona giuridica risponde dell’illecito amministrativo derivante da un reato-presupposto per il quale sussista la giurisdizione nazionale, commesso dai propri legali rappresentanti o soggetti sottoposti all’altrui direzione o vigilanza, a prescindere dalla sua nazionalità e dal luogo ove essa abbia la sede legale, nonché dall’esistenza o meno, nello Stato di appartenenza, di norme che disciplinino analoga materia, anche con riguardo alla predisposizione ed all’efficace attuazione di modelli organizzativi e di gestione atti ad impedire la commissione di reati che siano fonte di responsabilità amministrativa per l’ente stesso.
In particolare, i ricorrenti hanno affermato l’erroneità della decisione giurisdizionale che aveva ravvisato la sussistenza della giurisdizione italiana ritenendo che non potesse muoversi un rimprovero nei confronti dell’ente per “colpa in organizzazione” se non nel luogo in cui l’ente abbia il proprio centro decisionale.
La responsabilità degli enti è comunque di natura amministrativa e, pertanto, dovrebbe essere radicata nel luogo in cui si è verificato il deficit organizzativo, considerato soprattutto che le società in questione avevano sede fuori dal territorio italiano e svolgevano su di esso attività di carattere meramente formale.
La Corte di Cassazione smentisce la tesi adottata dai ricorrenti.
Chiarisce, in primo luogo, che la responsabilità amministrativa degli enti è di carattere autonomo rispetto alla correlativa responsabilità delle persone fisiche (art. 8 d.lgs. n.231/2001) e, pertanto, pur essendo spirato il termine prescrizionale in relazione a quest’ultima, è comunque possibile pronunciarsi in ordine alla responsabilità della persona giuridica nel cui interesse fu commesso il reato, che, tuttavia, non può prescindere da un accertamento seppure incidentale del reato presupposto.
La Corte, poi, per confutare la tesi difensiva richiama anzitutto l’art. 1 del decreto citato, il quale, nel definire l’ambito applicativo della responsabilità amministrativa degli enti, non fa alcuna distinzione tra quelli che hanno sede legale in Italia o all’estero.
In secondo luogo, sottolinea che la responsabilità degli enti, pur autonoma rispetto a quella delle persone fisiche, ha però carattere “derivato” rispetto a quella derivante dal reato presupposto, non avendo alcuna rilevanza il fatto che la predisposizione di modelli inadeguati a prevenire il rischio di commissione di reati sia avvenuto all’estero.
A supporto di tale argomentazione si richiama l’art. 36 del decreto sulla responsabilità degli enti che sancisce la competenza a pronunciarsi sulla responsabilità amministrativa del giudice altresì competente per il reato presupposto che avrà cognizione tanto dell’illecito penale quanto della derivante responsabilità amministrativa in ossequio al principio del simultaneus processus.
Altro argomento letterale speso dalla Suprema Corte consiste nel richiamo dell’art 4 del dlgs. 231/2001 che disciplina l’ipotesi opposta di reato presupposto commesso all’estero a vantaggio di una persona giuridica avente sede in Italia, assoggettata alla giurisdizione nazionale, salvo che nei suoi confronti non proceda anche lo Stato in cui è stato commesso il fatto.
La Corte osserva, inoltre, che nessuna disposizione autorizza a ritenere che le persone giuridiche siano sottoposte ad una disciplina speciale che consenta in buona sostanza di sottrarsi ai principi di territorialità e obbligatorietà della legge penale codificati agli art. 3 e 6 del Codice Penale.
Le norme richiamate, infatti, stabiliscono che la legge penale italiana si applichi a tutti coloro che si trovino sul territorio italiano, siano essi italiani o stranieri e che essa si applichi per tutti i fatti commessi sul territorio italiano, salve specifiche deroghe previste dal diritto internazionale pubblico.
Ancora, viene rilevato che si instaura la giurisdizione del giudice italiano quando solo una frazione dell’azione o dell’omissione penalmente rilevanti si siano verificati in Italia; a fortiori, dunque, dovrebbe sostenersi che la giurisdizione si radichi quando il reato presupposto nella sua complessità sia stato commesso in Italia, trattandosi di un elemento costitutivo della responsabilità amministrativa degli enti.
Accogliendo la ricostruzione offerta dai ricorrenti, oltre che violare i principi generali sopra richiamati si andrebbe a ledere anche il generale principio di uguaglianza, corrispondendo un trattamento differente alla persona fisica italiana sottoposta alla giurisdizione italiana per fatti commessi in Italia e persona giuridica, avente sede all’estero, ma responsabile in via amministrativa per l’effetto della commissione del reato presupposto in Italia.
Non è possibile ravvisare nell’impostazione seguita alcuna violazione dei principi di libertà di stabilimento contenuti negli art. 43 e 48 Trattato CE: l’inapplicabilità della disciplina nazionale alle imprese straniere determinerebbe una violazione della libera concorrenza a danno delle imprese nazionali, consentendosi solo alle imprese straniere di evitare i costi per approntare un efficace modello organizzativo di prevenzione dei reati.
Infine, tale quadro sembra essere ulteriormente confermato anche a livello europeo. Nel 2004 il legislatore è intervenuto sull’art. 97bis comma 5 del d.lgs. n. 385/1993 con cui il legislatore ha espressamente esteso la disciplina della responsabilità amministrativa degli enti anche “alle succursali italiane di banche comunitarie ed extracomunitarie”, valorizzando appunto l’elemento dell’operatività sul territorio italiano a scapito di quello della sede della persona giuridica.